Uno spillo, anzi un ago, o forse un coltello. Si insinuava tra le pieghe delle dita ogni volta che stringeva o sfiorava qualcosa. A volte se ne dimenticava, come quando infilava la mano in tasca alla ricerca delle chiavi, gesto comune e per questo inconsapevole, e gli riusciva difficile raggiungere il mazzo senza tormentarsi le falangi, tra smorfie di disgusto e buffi gesti inconsulti. In quel momento Mercy mordeva con tutta la sua forza, riprendendo il controllo della sua vita e ricordandogli che no, non poteva mai smettere di pensare a lei. L. cercava di tirar fuori le chiavi dalla tasca, spostando la giacca lunga ma leggera color oliva, che indossava nelle mezze stagioni, spingendo le dita dentro la fessura impervia dei pantaloni di taglio elegante in tinta prugna, oppure di un colore che ricordava la tonalità delle foglie di lavanda durante l’inverno, a seconda delle scelte operate al mattino. Abbinava delle buone scarpe in nabuk, dal colore del fiore di melanzana, e un discreto pullover, senza impegno, con garbo, di colori che spaziavano tra le infiorescenze candide dello spatifillo e le tinte vivaci e variegate della kalanchoe. Tra autunno e inverno, indipendentemente dal colore, i suoi pantaloni avevano cuciture doppie ed erano fatti di tessuto pesante, uniforme e compatto, adatto a comprimere, avvolgere, foderare, che avevano le tasche esclusivamente per motivi estetici, non certo per necessità pratiche. Lui però non lo sapeva e le utilizzava lo stesso. Erano fessure che prendevano forma grazie a uno scampolo di tessuto leggero e sfilaccioso che a lungo andare si consumava, dando immediato accesso alla fredda coscia invernale, ruvida e intirizzita. Il tessuto era color corteccia, oppure del nocciolo di pesca, solo raramente, rivoltando le tasche, si scoprivano inaspettate e inspiegabili tinte ciclamino. Infilare una mano all’interno di tasche di questo genere, per L., poteva trasformarsi in un’esperienza orribile.
Quando andava in ufficio, al mattino, solitamente tirava fuori le chiavi una volta arrivato davanti al portone d’ingresso del palazzo in cui lavorava, mai lungo il tragitto. Con Mercy, però, compiere questa operazione significava restare lì a frugare impacciati, mettendo in scena un teatrino imbarazzante. Si cominciava con l’ingresso di indice e pollice della mano destra nella tasca, pronte ad agganciare le chiavi, e l’ausilio della mano sinistra (quella più sana) dall’esterno, che spingeva il mazzo di chiavi verso l’uscita, avvicinandolo alle dita malconce della mano destra. Con questa tecnica, nel giro di qualche minuto, il mazzo faceva finalmente capolino dalla tasca, accompagnato da un ridicolo dimenarsi di mani tra i risvolti degli spessi pantaloni e le pieghe sbiadite della giacca. Tutto davanti a un portone fatto di quercia trattata con smalto e formaldeide, alla mercé dei passanti affrettati nella loro diffidenza. L. afferrava le chiavi con poca forza, per non irritare Mercy, e le trascinava delicatamente al di fuori della tasca, per non strappare il delicato tessuto interno ed evitare di bucare le tasche dei pantaloni, sempre aiutandosi con la mano sinistra. In questo, la presenza di un portachiavi lavorato non era di nessun aiuto, anzi.
Era un’operazione svilente, stancante, che lo faceva entrare in ufficio con l’aria stressata di chi ha fatto straordinari e con l’insofferenza di chi non ha dormito. Una volta sprofondato nella sedia con pistone a gas, di polipropilene e schiumato, si ricopriva le mani di Dexeryl, una crema dermoprotettiva prodotta da Pierre Fabre, adatta ai trattamenti cutanei generici e nota per essere piuttosto economica ma allo stesso tempo di grande efficacia. Uno di quei prodotti che ti fanno sentire, per una volta nella vita, più furbo delle case farmaceutiche, perché con pochi spiccioli puoi avere una crema validissima e fotterli tutti. L. estraeva il flacone biancazzurro dalla borsa, un enorme non ti scordar di me di forma cilindrica, e lo spremeva sulle mani come fosse un detersivo, ne sgorgava lentamente un gel bianco e opaco che creava un film protettivo e unto sulle dita, era una manna poco dolce e poco appiccicosa, che dava un leggero sollievo e mitigava il dolore provocato dalla pantomima del mazzo di chiavi. Per evitare di lasciare disgustose impronte di grasso ovunque, come se non bastasse, L. indossava guanti bianchi di cotone asettico, acquistati in farmacia insieme al Dexeryl, in maniera tale da assicurare alla pelle la necessaria protezione affinché la crema idratasse indisturbata. I guanti, soprattutto, gli consentivano di lavorare in maniera quasi normale, sebbene, così conciato, L. desse nell’occhio ogni volta che prendeva a ticchettare sulla tastiera come suo solito, senza mai distogliere lo sguardo dallo schermo. Erano vistosi al punto che distraevano lui stesso dal quadrato luminoso del suo computer da scrivania, colmo di caratteri, colori, scritte lampeggianti e immense liste di email da evadere. Niente in confronto a quei due guanti bianchi ripieni di Dexeryl che, per un paio d’ore, erano la museruola di Mercy. Erano buffi, anzi ridicoli, per certi aspetti imbarazzanti, ma più che altro divertenti.
La cosa migliore, per L., che cercava di vivere al meglio il suo rapporto con Mercy – completamente da solo, era osservare le reazioni degli altri a partire dalla pantomima delle chiavi fino alla museruola di Mercy. Non c’era, negli sguardi degli astanti, la benché minima comprensione, salvo rari casi, ma rivoli di giudizio che diventavano fiumi, laghi. Acque di sentenze solcavano le pendici di ogni viso che incrociava la vista di Mercy, sfacciata e sprezzante nella propria continua ricerca di nutrimento e nel proprio perverso piacere a divorare ogni cosa senza tregua. Della voracità di Mercy parevano preccouparsi più gli osservatori di L. che L. stesso, ma di chi era, a questo punto, il male? Nel primo periodo, L. odiava se stesso e Mercy. Svegliarsi al mattino era un’immersione di odio, non coincideva con il normale stress da alzarsi-controvoglia-per-andare-al-lavoro-ho-ancora-sonno, era puro odio verso i morsi di Mercy, che aveva passato la notte a rosicchiare pelle e dita e che presentava il conto del suo pasto ogni mattina. Era odio contro l’inesorabilità del tutto, orrore nel constatare il regolare ritorno di Mercy dopo ogni colata di cortisone. L. scavava nei suoi ricordi come Mercy scavava nella sua pelle per trovare quel maledettissimo giorno in cui, suo malgrado, commise quell’azione così orribile che gli valse come punizione i maledetti morsi di Mercy. Ma niente, non trovava mai niente di così deplorevole da motivare quella condanna. Spostare le lenzuola o, peggio, le coperte, era un’operazione sfiancante, al punto che talvolta, preso dalla disperazione, L. si alzava senza spostarle, si avvicinava al bordo del letto e iniziava a tirar giù i piedi lentamente, per raggiungere la posizione eretta senza muovere le mani, se non utilizzandole come appoggio per darsi la spinta, e lasciando che coperture varie gli scivolassero di dosso come un accappatoio prima di entrare in doccia.
La sopportazione di tutto questa era decisamente più faticosa dell’incontro con un volto disgustato. L. ticchettava sulla sua squallida tastiera di alluminio e plastica e si compiaceva del numero di email che riusciva a “evadere”. Il resto era fatto di interessi, noia e Mercy. Parlava di lei, faceva in modo che gli altri la notassero e gli chiedessero che cosa diavolo fosse. Era soddisfatto nel raccontare le proprie disgrazie e i propri tormenti, come se fossero i tormenti più importanti del mondo. Il punto è che non aveva mai niente di abbastanza grave per ottenere compassione né per vincere la gara del chi-sta-più-male, sport molto in voga nel Progresso, ed anzi, solitamente, otteneva l’effetto di scatenare numerosi «anche io, a me invece» che ricoprivano L., Mercy e la sua museruola. Erano tutti ansiosi di giudicare e farsi giudicare. Se riesci a rendere una disgrazia abbastanza interessante da suscitare un buon livello di empatia allora puoi scatenare una gara alla disgrazia più ganza, e magari godertela mentre ti ricopri le mani di Dexeryl, silenzioso e sommessamente gaudente. Del resto, se non puoi vincere, finisce che della gara te ne freghi.
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